di Albert Camus
– Non avete ancora capito.
– Che cosa?
– La peste.
– Ah.
– No, non avete ancora capito che consiste nel ricominciare.
Rambert e Rieux
Siamo negli anni ’40 del secolo scorso, un’era moderna, evoluta, sicura. Eppure un flagello antico si abbatte sulla città di Orano, in Algeria. E poco importano i progressi della medicina, o delle comunicazioni: come nei secoli passati l’umanità di Orano è inerme di fronte al flagello, e sola. Seguiamo le vicende di un gruppo di appartenenti a questa umanità, narrate da un cronista intrappolato anche lui nella città appestata.
Non avevo mai letto Camus, ma ero molto incuriosita da questo romanzo, già tempo fa avevo visto che era presente nella Biblioteca della mia città, e ci avevo fatto un pensierino. Dal titolo mi immaginavo un romanzo storico, e dall’autore (che so essere stato anche filosofo) un libro pesante e rimuginante.
Mi sbagliavo su tutti i fronti! Non è un romanzo storico, essendo ambientato nel presente dell’autore, e basato su una storia di fantasia (anzi, leggo addirittura sulla Wikipedia che a detta di Camus stesso La peste fa parte del cosiddetto “ciclo dell’assurdo”), e non è stato per niente una lettura pesante! Certo, il tema non è allegro, però lo stile di Camus scorre che è un piacere, si entra nei personaggi e si soffre con loro, e poi ci si fa un po’ il callo, e poi si soffre di nuovo.
I semplici, brevi accenni al paesaggio cittadino che si modifica con le stagioni, mi hanno colpito tantissimo, contribuendo a farmi sentire lì ad Orano.
Tra i protagonisti non abbiamo quasi mai gesti eclatanti di dolore o manifestazioni palesi di sentimenti, qualunque siano, per questo forse ho faticato un po’ ad affezionarmici, però alla fine il mio cuore era tutto con loro, in particolare con Tarrou. Come accadeva per Rieux, trovavo confortante la sua presenza, la sua calma efficiente. Solo però quando si è aperto al dottore e gli ha raccontato la sua storia, ho cominciato ad amarlo veramente.
Il mio personaggio preferito rimane comunque Rieux, con nessuno degli altri sono entrata tanto in sintonia, per nessuno degli altri ho sentito tanta comunanza di gesti e di passioni (almeno in teoria… io non so se riuscirei ad essere così brava ad aiutare gli altri se mi trovassi in una situazione così tragica!). Con un colpo al cuore ho appreso la notizia della morte della moglie, al contrario di lui io non me l’aspettavo! E mi ha colpito questo personaggio anche in questo suo dolore previsto, non per questo meno acuto, ma privo di sorpresa, visto che da mesi, ormai, si preparava a questa notizia.
Altra sorpresa, ovviamente sempre solo per me, scoprire alla fine che il cronista, che interveniva solo ogni tanto per specificare qualche fonte, era proprio lui, Rieux! Non me l’aspettavo, credevo sarebbe rimasto sempre uno di quei narratori anonimi, che si dicono presenti, ma non si possono identificare con nessun personaggio. Quest’ultimo particolare del personaggio di Rieux me l’ha reso ancora più caro!
Mi ha affascinato molto Camus in questo romanzo, e mi ha incuriosito il suo “ciclo dell’assurdo”: Lo straniero finisce subito in wishlist!
Dammi 3 parole
Informazioni sul libro
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Il segnalibro che ho usato durante la lettura mi è stato regalato da la vecchia strega in occasione del primo scambio di segnalibri nel gruppo Readers Challenge.
Titolo originale: La Peste
Anno: 1947
Casa Editrice: Bompiani
traduzione di Beniamino Dal Fabbro
pagine: 235
La peste su aNobii
Un po’ di frasi
I singolari avvenimenti che dànno materia a questa cronaca si sono verificati nel 194… a Orano; per opinione generale, non vi erano al loro posto, uscendo un po’ dall’ordinario: a prima vista, infatti, Orano è una città delle solite, null’altro che una prefettura francese della costa algerina.
[incipit]
Quando scoppia una guerra, la gente dice: “Non durerà, è cosa troppo stupida”. E non vi è dubbio che una guerra sia davvero troppo stupida, ma questo non le impedisce di durare. La stupidaggine insiste sempre, ce se n’accorgerebbe se non si pensasse sempre a se stessi.
Sì, è vero che gli uomini ci tengono a proporsi esempi e modelli che chiamano eroi, e se assolutamente bisogna che ce ne sia uno in questa storia, il narratore propone appunto quest’eroe insignificante e sbiadito, che non aveva per sé che un po’ di bontà di cuore e un ideale apparentemente ridicolo. Questo darà alla verità quello che le si deve, alla somma due più due il totale di quattro, e all’eroismo il posto secondario che dev’esser suo, sempre dopo e mai prima della gloriosa esigenza della felicità.
C’erano, a esempio, il male apparentemente necessario e il male apparentemente inutile. C’erano Don Giovanni sprofondato agli Inferi e la morte d’un bambino. Se infatti è giusto che il libertino sia fulminato, non si capisce la sofferenza dell’innocente. E in verità non c’era nulla sulla terra di più importante della sofferenza d’un bambino e dell’orrore che tale sofferenza si porta con sé e delle ragioni che bisognava trovarle. Del resto, nella vita Dio ci facilitava tutto, e sino a lì la religione era senza meriti; ma qui, invece, ci metteva ai piedi d’un muro. Noi eravamo sotto le muraglie della peste e alla loro mortifera ombra bisognava che trovassimo il nostro beneficio. Padre Paneloux rifiutava anche di concedersi i facili vantaggi che gli avrebbero consentito di scalare il muro. Gli sarebbe stato facile dire che l’eternità di delizie che aspettavano il bambino potevano compensarlo della sofferenza, ma, in verità, lui non ne sapeva niente. Chi poteva affermare, infatti, che l’eternità d’una gioia possa compensare un attimo del dolore umano? Non sarebbe sicuramente un cristiano, il cui Maestro ha conosciuto il dolore nelle membra e nell’anima. No, il Padre sarebbe rimasto ai piedi del muro, fedele al supplizio di cui la croce è il simbolo, di fronte alla sofferenza di un bambino.
Lei sa che il plotone d’esecuzione si mette invece a un metro e mezzo dal condannato? Sa che se il condannato facesse due passi avanti urterebbe col petto i fucili? Sa che a questa distanza gli sparatori concentrano il tiro sulla regione del cuore e che tutti, coi grossi proiettili, fanno un buco dove si potrebbe mettere un pugno? No, lei non lo sa: sono particolari di cui non si parla. Il sonno degli uomini è più sacro che la vita per gli appestati: non si deve impedire alla brava gente di dormire. Ci vorrebbe del cattivo gusto, e il buon gusto consiste nel non insistere , è cosa che tutti sanno. Il cattivo gusto mi è rimasto in bocca e io non ho cessato d’insistere, ossia di pensarvi.
Tarrou
– Io mi sento più solidale coi vinti che coi santi. Non ho inclinazione, credo, per l’eroismo e per la santità. Essere un uomo, questo mi interessa.
– Sì, noi cerchiamo la stessa cosa, ma io sono meno ambizioso.
Rieux e Tarrou
Un bagno in mare; anche per un futuro santo, è un degno piacere. […] Insomma, è troppo stupido non vivere che nella peste. Beninteso, un uomo deve battersi per le vittime. Ma se ha finito di amare ogni altra cosa, a cosa serve che si batta?
Tarrou
Un mondo senz’amore era come un mondo morto e viene sempre un’ora in cui ci si stanca delle prigioni, del lavoro e del coraggio, per domandare il viso d’una creatura e il cuore meravigliato dall’affetto.
Lui, Rieux, cosa aveva guadagnato? Aveva soltanto guadagnato di aver conosciuto la peste e di ricordarsene, di aver conosciuto l’amicizia e di ricordarsene, di conoscere l’affetto e di doversene ricordare un giorno. Quanto l’uomo poteva guadagnare, al gioco della peste e della vita, era la conoscenza e la memoria. Era forse questo che Tarrou chiamava guadagnar la partita!
Decise allora di redigere il racconto che qui finisce, per non essere di quelli che tacciono, per testimoniare a favore degli appestati, per lasciare almeno un ricordo dell’ingiustizia e della violenza che gli erano state fatte, e per dire semplicemente quello che s’impara in mezzo ai flagelli, e che ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare.
Ascoltando, infatti, i gridi d’allegria che salivano dalla città, Rieux ricordava che quell’allegria era sempre minacciata: lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice.
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