di Giacomo Debenedetti
Titolo: 16 ottobre 1943
Genere: saggio, storia
Autore: Giacomo Debenedetti
Nazionalità: italiana
Anno prima pubblicazione: 1945 (in rivista già nel ’44)
Ambientazione: Italia (Roma); 16 ottobre 1943
Casa Editrice: Einaudi (Tascabili)
Copertina: una famiglia del ghetto di Roma catturata e deportata il il 16 ottobre 1943.
Pagine: 82
Note: contiene due testi, “16 ottobre 1943” e “Otto ebrei”
Link al libro: ANOBII
inizio lettura: 12 dicembre 2011
fine lettura: 16 dicembre 2011
Né il Vaticano, né la Croce Rossa, né la Svizzera né altri Stati neutrali sono riusciti ad avere notizie dei deportati. Si calcola che solo quelli del 16 ottobre ammontino a più di mille, ma certamente la cifra è inferiore al vero, perché molte famiglie furono portate via al completo, senza che lasciassero traccia di sé, né parenti o amici che ne potessero segnalare la scomparsa.
explicit di “16 ottobre 1943”
Il 16 ottobre 1943 i nazisti irruppero nel Ghetto di Roma prelevando e deportando più di mille ebrei.
Questo libro contiene due… come potrei chiamarli? Racconti? Testimonianze? Cronache? Insomma, due testi, scritti tra i mesi di settembre e novembre del 1944, quando quindi la guerra non era ancora finita e le atrocità non ancora un ricordo, ma una triste realtà. Il primo racconto (ok, chiamiamoli così, per comodità) è quello che dà il titolo al libro, il secondo si intitola “Otto ebrei”, ed è da questo che vorrei cominciare.
Otto ebrei mi è piaciuto di meno, soprattutto perché si tratta più che di una cronaca di una serie di riflessioni dell’autore, che partono da una testimonianza ad un processo di un commissario di Pubblica Sicurezza che per dimostrare il proprio antifascismo rivela che quando i tedeschi gli chiesero di cancellare dieci nomi dalla lista dei destinati alle Fosse Ardeatine, lui cancellò quelli di otto ebrei, e poi altri due nomi presi a caso.
L’opuscolo provocò fin dalla sua prima pubblicazione moltissime polemiche, e Debenedetti fu accusato di “ingratitudine”. Perché in “Otto ebrei” dichiara di ritenere il gesto del commissario ingiusto, in quanto, applicando un favoritismo, continua comunque a discriminare gli ebrei. In questo “eccesso di affetto” piovuto addosso ai sopravvissuti (il caso del commissario serve solo da esempio per parlare di un atteggiamento diffuso) Debenedetti vede un’ “antipersecuzione”, anche se stavolta a fin di bene, e spesso ne critica anche le motivazioni:
Se prima negli ebrei si puniva l’ebreo, oggi al vedere la situazione, non già corretta, ma semplicemente capovolta con sì perfetta simmetria di antitesi, può nascere il dubbio che negli ebrei si perdoni l’ebreo. (Pagina 71)
Ma chi, come gli ebrei, ha sete di libertà, una di quelle seti che tappezzano il palato: chi ha capito come la libertà sia letteralmente una questione di vita o di morte, è pronto a riconoscere che, tra tutte le libertà che compongono la Libertà, è compresa anche la libertà di essere antisemiti. (Pagina 76)
Questo racconto è un po’ difficile da comprendere appieno (ma, parafrasando Spiegelman: certe cose nessuno le può capire), ma mi è comunque piaciuto, l’ho trovato interessante e ben scritto, e le riflessioni di Debenedetti hanno fatto riflettere molto anche me perché, nonostante, come dicevo, riguardino cose che non possono essere comprese del tutto da chi non le ha mai vissute, mi sono sembrate in qualche modo riferite anche a me.
Il primo scritto presente nel libro, 16 ottobre 1943 è breve e splendido, per dirlo con la parole di Natalia Ginzburg, autrice della prefazione.
Brevemente, con citazioni di testimoni e, quando possibile, prove, ricostruisce quello che è accaduto il 16 ottobre 1943, quando i nazisti deportarono più di mille ebrei romani.
Questo racconto è stato scritto nel novembre del ’44, e pubblicato su una rivista a dicembre, quindi poco più di un anno dopo le vicende narrate, quando la guerra era ancora in corso. Come si legge infatti nelle righe finali che ho riportato in alto, non si sa nulla delle persone deportate, la loro sorte era ancora sconosciuta. Oggi se ne sa un po’ di più: stando alla Wikipedia gli ebrei deportati dal ghetto furono 1022, tra cui circa 200 bambini, e finirono ovviamente ad Auschwitz. Soltanto 17 riusciranno a sopravvivere, tra questi una sola donna e nessun bambino.
Sembra assurdo pensare che la sera prima di questa fatidica data gli ebrei del ghetto erano stati avvertiti dell’imminente rastrellamento. Una donna che lavorava a servizio a Trastevere, infatti, ha veduto la moglie di un carabiniere, e questa le ha detto che il marito, il carabiniere, ha veduto un tedesco, e questo tedesco aveva in mano una lista di 200 capi-famiglia ebrei, da portar via con tutte le famiglie. (Pagina 4). Nessuno le crede, e ancora, tanta ingenuità risulta incomprensibile, incredibile tanta fiducia nei tedeschi. Ma a ben pensarci può sembrare assurdo ora, col senno di poi di noi che conosciamo Auschwitz e compagnia bella, ma allora no, allora chi ci poteva credere a tanta atrocità? Soprattutto visto che qualche settimana prima avevano pagato, per la propria salvezza, cinquanta chili d’oro ai tedeschi! Anche questa un’altra storia di sopruso e ingiustizia, questa però in un certo senso a lieto fine, perché i cinquanta chili alla fine si trovarono, con l’aiuto di tutti, anche di molti non ebrei, perfino del Vaticano:
Ormai tutta Roma aveva saputo del sopruso tedesco, e se ne era commossa. Guardinghi, come temendo un rifiuto, come intimiditi di venire a offrir dell’oro ai ricchi ebrei, alcuni «ariani» si presentarono. […] Quasi umilmente domandavano se potevano anche loro… se sarebbe stato gradito… Purtroppo non lasciarono i nomi, che si vorrebbero ricordare per i momenti di sfiducia nei propri simili. (Pagina 11)
Ho apprezzato molto lo stile di Debenedetti, soprattutto in questo primo testo più narrativo rispetto a “Otto ebrei”. Il suo lessico ricco ma asciutto non indugia in sentimentalismi neanche nelle parti più drammatiche, e sbriga delle volte anche quasi frettolosamente momenti piuttosto tragici.
Toccante, crudele, scarno pur essendo particolareggiato, questo resoconto parla con obiettività e giusto un filo di ironia, denuncia e ricorda, descrive e commuove. Insomma, non trovo proprio un modo migliore per descriverlo se non di nuovo quei due semplici aggettivi: breve e splendido.
Copertina e Titolo
Il titolo è diretto, essenziale e oserei dire asettico, ma proprio per questo adattissimo.
La copertina conserva la stessa semplicità, che un pochino fa specie quando nel retro si leggere che la foto non è messa a caso, ma è proprio quella di una famiglia del ghetto di Roma catturata il 16 ottobre 1943.
Dammi 4 parole
Sfide
Ri-dammi 4 Parole
LA SFIDA DELLE STAGIONI – continua (nel 2011)
Sfida della NON-Narrativa
La Sfida del Bersaglio
Un po’ di frasi
Non ho messo, contrariamente al solito, gli explicit sotto spoiler perché non essendo un’opera di narrativa non ci sono vere anticipazioni.
Sembra un libro molto denso. Queste testimonianze mi spaventano sempre un po’ – per tutto quello che stanno a simboleggiare e per quello che mi fanno pensare. Ma è uno spavento che ogni tanto sento la necessità di subire. Grazie per avermi fatto conoscere questo libro che non conoscevo!
Prego! Anch’io in effetti devo ringraziare la sfida delle stagioni per avermi fatto conoscere questo libro, infatti l’ho scoperto spulciando nel catalogo biblioteca alla ricerca di qualcosa ambientato in autunno.
Concordo con te in quanto allo “spavento” che fanno certi libri, ma questo nel suo genere è così corto e ben scritto da non risultare troppo pesante anche da quel punto di vista. Lo consiglio sicuramente!
L’ho letto al liceo e anche io, come te, ne sono rimasta profondamente colpita. Da romana, poi, conosco benissimo la zona del ghetto e ho avuto la fortuna di incontrare Settimia Spizzichino in più occasioni organizzate dalla scuola. Rimanere freddi di fronte a certi racconti non è possibile. Ti scavano dentro ed è giusto così.
E’ vero, hai ragione, è giusto così!
Pensa che io invece la zona del ghetto non la conosco per niente, e infatti mentre leggevo mi ripromettevo di informarmi a ndarci a fare una capatina, qualche volta!